Angelo Cosmano, da contadino ad eroe di Guerra

Chi è un eroe? I greci dicevano che l’eroe era un semidio kalòs kai agathòs, bello e buono, un uomo che assurgeva al rango di superuomo per il coraggio, l’ardimento e il sacrificio del proprio interesse sull’altare del bene di altri, magari deboli e fragili. Presso gli antichi, gli eroi erano, quindi, o dèi decaduti alla condizione umana per il prevalere di altre divinità o uomini ascesi al rango divino in virtù di particolarissimi meriti. In ognuno dei due casi essi rappresentavano un punto di congiunzione tra umano e divino che faceva sì che ad essi si volgesse l’ammirazione popolare, il rispetto della collettività, una certa devozione che ne faceva un esempio sul quale intonare canzoni o di cui narrare epicamente ai giovani. Di conseguenza, siamo portati a credere che l’eroe possieda quelle caratteristiche che prima l’antica iconografia popolare e poi, nei nostri anni, il cinema gli hanno attribuito come stereotipo, e cioè personaggi con muscoli vistosi, vento nei lunghi capelli, poderose corazze scintillanti al sole, piglio determinato, volitivo e vincente. Sì, certamente sì, se ci riferisce ad un Achille, ad un Ercole, ad un guerriero acheo, ad un oplita ateniese, ad un garibaldino all’assalto tra i campi di grano di Calatafimi. E se invece il germe dell’eroicità non fosse del tutto divino? E se esso fosse nascosto in ognuno di noi? Dopo tutto, Napoleone affermava fiduciosamente che “ogni soldato francese porta nella sua giberna il bastone di Maresciallo di Francia”.

In tempi più recenti gli eroi immortalati sulle copertine di Achille Beltrame o di Walter Molino sulla “Domenica del Corriere” o su quelle di Vittor Pisani su “La Tribuna Illustrata” erano fanti calabresi o sardi, erano alpini piemontesi, erano arditi romagnoli. Non erano divini, astratti, mitologici. Erano persone simili al lettore, erano vicini di casa, colleghi d’ufficio, contadini del podere confinante. Eppure, l’atto eroico li aveva portati oltre il confine della normalità. Erano eroi, ma venivano dalle nostre città, dalle nostre campagne e dai nostri mestieri. Come gli eroi antichi, le loro figure apparivano sulle riviste che finivano rilegate nelle annate raccolte in casa, o ritagliate e incollate sulle pareti dei ragazzi o nelle ricerche di scuola.

Un eroe era qualcosa che restava.

La mia generazione, forse l’ultima di una certa Italia, trovava illustrate sul sussidiario delle scuole elementari le vicende di Francesco Baracca, di Enrico Toti, di Nazario Sauro. E che dire dei personaggi dei racconti mensili del “Libro Cuore”?

Gli eroi, insomma, erano i nostri santi laici, venerati sull’altare della religione della Patria. Anche la provincia di Reggio Calabria ha avuto, tra i suoi figli migliori, diversi eroi. Oggi sono diventati vie, nomi di scuole, stinte lapidi che fanno parte di uno sbiadito ed immemore panorama, pronti ad essere rimossi quando una nuova spinta emozionale o censoria avvertirà, così come – ahimè – sta recentemente avvertendo, l’esigenza di cambiare nome, di dedicare la stessa via, lo stesso plesso scolastico, ad un eroe anche minore, ma nuovo. E allora, è dovere di chi studia, di chi ricerca, di chi si nutre di storia, tenere viva la memoria di chi ha reso luminoso il nostro passato, sia per preservarne gli insegnamenti e gli esempi, che per essere sempre consapevoli di come spesso sia stato il loro sacrificio a donarci il bene supremo della Patria unita e della libertà, valori che oggi, seppure in pericolo, ci sembrano ovvi e scontati.

Uno tra gli eroi reggini la cui figura oggi mi piace brevemente tratteggiare è Angelo Cosmano, nato a Molochio (RC) il 10 marzo del 1878 e che tanto lustro diede alla provincia calabrese. La voglia di saperne di più mi venne quando vidi una fotografia di un Sottufficiale del Regio Esercito che, durante una cerimonia in città, si rivolgeva confidenzialmente al Principe Umberto di Piemonte, da questi cordialmente ricambiato. Ma come, un Maresciallo si prendeva una simile libertà con l’erede al Trono? Angelo Cosmano era un tipo pratico, spiccio, poco avvezzo alle ampollosità dell’epoca, semplice così come sicuramente semplici erano i suoi genitori, due umili e solidi contadini aspromontani. Quale fosse la sua strada lo capì giovanissimo. Chiamato alle armi nel 1899 presso il 44° Reggimento di Fanteria, dopo pochi mesi, appena finito l’addestramento, si offrì volontario per l’Eritrea, in Africa Orientale, dove fu assegnato al Corpo delle Truppe Coloniali nella 1ª Compagnia Cacciatori d’Africa. Fu solo l’inizio di un lungo periodo in armi nelle nostre colonie, durante il quale fece carriera fino a giungere al grado di Maresciallo Ordinario. Nel 1911, dall’Africa Orientale fu trasferito in Tripolitania per la guerra italo-turca. I tanti anni di Africa, una buona conoscenza delle truppe coloniali, della lingua amhara e del terreno, gli consentirono ben presto di distinguersi in azione.

Combatté con valore a Bir el Turk e a Gargaresh, ma leggendaria rimase l’operazione di soccorso da lui compiuta durante la battaglia di Zanzur, nota anche come battaglia di Sidi Abdul Jalil, quando, pressoché disarmato e sotto il fuoco di fucileria nemica, riuscì coraggiosamente a salvare un ufficiale ed alcuni soldati seriamente feriti. Questa azione gli valse la Medaglia d’Argento al Valor Militare con la seguente motivazione: «Accorreva in aiuto di alcuni ascari che non riuscivano a trasportare un ufficiale gravemente ferito, e caricatolo sulle spalle, lo trasportava al sicuro. Tornato al combattimento e rimasto senza cartucce, restava sulla linea del fuoco a soccorrere i feriti, dando esempio di ardimento e coraggio. Zanzur, 8 giugno 1912». Nello stesso anno rientrò in Patria, ma scelse di non essere smobilitato, assumendo, come Maresciallo Capo, il comando della III Sezione Mitraglieri. Non erano anni tranquilli: la vecchia Europa viveva gli ultimi scampoli di pace prima della Grande Guerra che scoppiò, anche per noi, il 24 maggio 1915.

 

Non erano anni tranquilli: la vecchia Europa viveva gli ultimi scampoli di pace prima della Grande Guerra che scoppiò, anche per noi, il 24 maggio 1915. All’inizio delle ostilità il Maresciallo Cosmano fu inviato in zona d’operazioni e si attestò a Plava, oltre l’Isonzo, di fronte alle prime linee austroungariche. Era una guerra dura e violenta, dove le regole di guarnigione erano solo carta straccia e si viveva alla giornata nel fango delle trincee con la morte sempre in agguato. Nel settembre del 1915 fu trasferito sul Monte Kuk dove rimase ferito combattendo eroicamente. La sua condotta coraggiosa gli valse un’altra Medaglia d’Argento al Valor Militare che chiese ed ottenne che venisse commutata in promozione sul campo al grado di Maresciallo Maggiore per meriti di guerra. Alcune fonti riferiscono che rifiutò addirittura l’avanzamento a Sottotenente che lo avrebbe condotto lontano dai suoi fidati uomini. Ma non bastava. Ripresosi dalle ferite riportate sul Kuk, fu trasferito sul monte Lèmerle, dove infuriava l’Offensiva di Primavera austriaca, la Strafexpedition, la spedizione punitiva che aveva colto di sorpresa le nostre truppe.

Il 44° Reggimento di Fanteria stava subendo perdite spaventose (in un solo giorno circa 1500 caduti, compresi 47 ufficiali) comportandosi con un coraggio tale che il Feldmaresciallo Svetozar Borojevi? von Bojna, Comandante austriaco dell’Armata dell’Isonzo, disse poi testualmente, parlando della Brigata Forlì di cui il 44° faceva parte: «I Reparti avversari effettuarono spesso quegli ostinati attacchi contro le nostre posizioni […] con grande bravura e grande valore, sì che anche le nostre truppe non poterono fare a meno di apprezzarne il contegno». L’ordine per gli italiani era di difendere dalla vetta, con le proprie mitragliere, lo stretto passaggio sottostante. Nei dintorni vi era appena l’organico di una nostra compagnia sparpagliata qua e là, mentre il nido di mitragliatrici di Cosmano poteva contare solo sui pochi serventi delle due armi. Alle primissime luci del 10 giugno, un sordo tuono sempre più forte strappò dal sonno i pochi italiani che riposavano. Iniziava così un poderoso fuoco di sbarramento dell’artiglieria austriaca. Una prima mitragliatrice fu fatta a pezzi da una granata avversaria, ma l’altra operava ancora. Dall’alto si vedeva bene la manovra del nemico che, con un reparto di fanteria, iniziava l’accerchiamento della posizione italiana. Il maresciallo Cosmano non si perse d’animo e difese la postazione con il fuoco dell’unica mitragliatrice funzionante e con la sua rivoltella d’ordinanza. Quando anche la seconda mitragliatrice cessò di funzionare i soldati superstiti si appiattirono alle rocce sparando sul nemico austroungarico con i moschetti e con le poche pistole in dotazione. In un raro momento di pausa che interruppe il brutale scontro a fuoco, gli austriaci, forti di un preponderante numero di soldati, gli intimarono la resa, ma il maresciallo Cosmano si guardò intorno, certamente vide i feriti, le poche munizioni, il sangue sparso, le mitragliatrici fatte a pezzi. Poi guardò sprezzante l’austriaco che intendeva parlamentare e gli gridò, in calabrese: «Di ccà non si passa!».

I combattimenti ripresero con furia. Cosmano ribadì la sua determinazione incidendo grossolanamente la frase su una roccia. Le ore passavano. Lo scontro a fuoco cessò dopo ben cinque ore di sparatoria pressoché ininterrotta e riprese violento l’indomani e il giorno successivo. La mattina del terzo giorno uno squillo di tromba nella valle si trasformò in un soffio di vita che si inerpicava verso quelle vette dove la morte credeva ormai di essere la padrona. I rinforzi italiani accorrevano in soccorso, disperdendo gli austriaci che non erano, comunque, riusciti ad aver ragione dei pochissimi soldati del Maresciallo calabrese. Non fu un fatto isolato: la resistenza italiana a monte Zovetto, sul Lèmerle, sulle Melette di Gallio e Foza impedì agli austroungarici di dilagare nella pianura, arrestando così l’intera Strafexpedition. L’azione valse al Cosmano la Medaglia d’Oro al Valor Militare “sul campo”, conferitagli di moto proprio da Sua Maestà il Re Vittorio Emanuele III, il 23 giugno 1916, con la seguente motivazione: «Comandante di una mezza sezione di mitraglieri, seppe col solo suo fuoco arrestare ingenti forze nemiche che l’accerchiavano. Per cinque ore, con un manipolo di valorosi, fronteggiò la situazione contro un nemico soverchiante, compiendo prodigi di eroismo e di destrezza, mostrando sprezzo della morte e tenacia insuperabile. Monte Lèmerle, 10 giugno 1916».

Una breve e pacata riflessione: nel dicembre del 1944, a Bastogne nelle Ardenne, le truppe americane rimasero accerchiate da reparti della Wehrmacht e delle SS. Ai parlamentari tedeschi che gli intimavano la resa, il Generale statunitense Anthony McAuliffe rispose «Nuts!» che, in modo gergale e un po’ più volgare, equivale perfettamente al «Di ccà non si passa!» del Maresciallo Cosmano. L’episodio di Bastogne passò alla storia, divenne un simbolo della determinazione delle Forze Armate americane e venne riproposto eroicamente in molti film di guerra, mentre l’altro, del tutto sconosciuto e ormai dimenticato, lo stiamo riscoprendo oggi! La Prima Guerra Mondiale finì e, nel giugno del 1919, il Maresciallo Maggiore Angelo Cosmano fu trasferito al 20° Reggimento di Fanteria di Reggio Calabria che aveva sede presso la locale Caserma “Borrace”, un luogo che, negli anni in cui Reggio si onorava di ospitare l’Esercito, forniva alle Forze Armate uomini valorosi che combatterono sui principali fronti della prima guerra mondiale, della guerra di Etiopia e, in Africa Settentrionale, agli ordini di Rommel e di Graziani.

 

La Provincia di Reggio Calabria ha più volte onorato questo forte e coraggioso militare. Prima in vita, facendone uno dei suoi rappresentanti illustri da ostentare orgogliosamente in occasione di visite reali o di altre prestigiose autorità, ma anche conferendogli la cittadinanza onoraria del Comune di Locri, e poi, dopo la morte che lo colse da poco congedato, il 24 novembre del 1940, in sua memoria fu intitolato un rione nella città di Reggio Calabria e, nella natia Molochio, una via ed un plesso scolastico. Dopo le esequie solenni celebrate nel Tempio della Vittoria sul Corso Garibaldi di Reggio Calabria, alla presenza delle Autorità Militari e Civili e di tutte le Associazioni Combattentistiche e d’Arma, la salma dell’eroe molochiese fu inumata presso una Congrega nel Grande Cimitero di Condera della città capoluogo. È davvero un peccato che la città, al pari di moltissime altre, non abbia mai pensato, anche in epoca nella quale questi valori avevano il giusto rispetto, di creare un suo Pantheon, un Cimitero degli Eroi civili e militari. Le loro tombe, quando ancora mantenute, sono sparse qua e là e alcune lasciano intuire solo con una sbiadita fotografia un passato degno invece di essere custodito nella memoria delle città.

Ma ovunque sia la tomba del Maresciallo Maggiore Cosmano, a quel tempo il Maresciallo più decorato d’Italia, essa è di pieno diritto unita idealmente a quelle dei suoi uomini che caddero sui vari fronti di guerra e, in particolare, a quelle che riposano presso il Sacrario Militare di Asiago, sul colle del Leiten. Al suo interno hanno trovato giusta collocazione le salme di 54.286 caduti di tutti gli eserciti belligeranti, di cui circa 33.000 ignoti. Quasi 55.000 vite spezzate, solo in quelle zone, dalla follia di quella “inutile strage”, come ebbe a definirla con angoscia Papa Benedetto XV. Tra di essi tantissimi calabresi. Nell’avviarmi alla conclusione, mi corre l’obbligo di fornire qualche numero, solo apparentemente noioso, ma che sottolinea in modo significativo quale fu l’apporto della nostra regione alla Grande Guerra, a quella che fu l’ultima Guerra d’Indipendenza del Regno d’Italia. La Calabria impegnò in zona di guerra cinque Brigate e, a fronte della media regionale italiana del 74%, le province di Reggio Calabria, Catanzaro e Cosenza fornirono il 78% dei mobilitati. Ma la Calabria ebbe a rivendicare un altro primato, ben più drammatico: quello del maggior numero di morti in guerra in termini percentuali in rapporto alle truppe mobilitate. A fronte della media nazionale dei Caduti del 10,50%, l’11,31% dei calabresi mobilitati nella Grande Guerra cadde in combattimento, e di quell’eroismo restano a testimonianza le 14 Medaglie d’Oro al Valor Militare conferite ai soldati bruzi, anche in questo caso in misura superiore alla percentuale nazionale. Qualche numero, avevo detto. Ma numeri fatti di carne e ossa, di coraggio e paure, di gioventù e morte, di sangue versato per la nostra Patria.

Marcello G. Novello